Chi sono

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Sono Daniela Spagnolo, Influencer di Gentilezza e Inclusività, Scrittrice di Donne, Blogger, Founder of @kindpowity_bydanielaspagnolo. Nel 2013 pubblico, in self publishing, "Fate Moderne", e nel 2016, sempre nella stessa forma, "La gente perbene e la ragazza del mercato". Nel 2018 esce "Il silenzio del Tempo", edito dalla casa editrice 96-rue-de-la-fontaine. Nel 2021 è la volta di "Dora", un noir dai tratti gotici, pubblicato con la LFA PUBLISHER, che si pone l’ambizioso obiettivo di essere il primo di una serie tutta ambientata nella medesima cittadina. Nel 2022 arriva "Piccolo Diario di una Cicatrice", ancora edizioni LFA PUBLISHER: un libro interattivo per provare a ripartire dalle proprie cicatrici. Vivo a Grugliasco alle porte di Torino (la mia città natale), e sono naturalmente spinta verso l’impegno sul territorio, che nel 2023 trova realizzazione nella costituzione del PRIMO GRUPPO DI LAVORO sulla DISABILITA’ – GRUGLIASCO, che ho fondato insieme ad una cara amica con la quale condivido esperienze di vita. Scopri di più su quello che faccio: linktr.ee/daniela.spagnolo_scrittrice

mercoledì 2 dicembre 2020

SIMONE IL LEONE: storia di un bambino speciale

Qualche giorno fa mi hanno mandato un messaggino che sponsorizzava la vendita di panettoni in favore di un’associazione no profit.

Appena ricevuto, ho subito pensato che si trattasse del solito messaggio, di quelli che popolano whatsapp e Facebook nei giorni prima di Natale, e se non fossi stata così golosa, non l’avrei letto tutto se non si fosse trattato di panettoni!

Invece, per fortuna i miei neuroni si sono attivati, proprio grazie al desiderio continuo di zuccheri saturi, e così ho letto il messaggino fino alla fine.

Ed ho così scoperto che non si trattava di uno dei soliti messaggini…o meglio, sì, lo era, ma io conoscevo le persone che c’erano dietro e, soprattutto, conoscevo il soggetto attorno al quale tutti gli ingranaggi, panettoni compresi, giravano!

Si tratta, infatti, di un bimbo che ho visto al parchetto sotto casa, uno dei primi giorni dopo il nostro trasferimento qui a Grugliasco. Non so se lui si ricordi di aver giocato anche con mio figlio Umberto.

Insomma, ovviamente ho acquistato il panettone…e non l’ho fatto solamente perché si tratta di un mega dolce di pasticceria al cioccolato…no…non sono solo ciccia e brufoli!

L’ho fatto, perché dopo aver letto quel semplice messaggino, mi sono andata a documentare.

E così ho scoperto, appunto, di conoscere il bimbo, che si chiama Simone; e poi, ho scoperto la sua storia, che poi è quella della sua famiglia.

Mi sono chiesta se il mio gesto fosse stato generato da un sentimento di pietà.

Inevitabilmente, la pietà è sempre dietro l’angolo, soprattutto quando si tratta di bambini.

Posso dire con certezza, che NO, non sono stata mossa da pietà, poichè io ODIO la pietà.

La pietà è un sentimento che mette inevitabilmente su due piani diversi chi la prova e chi la riceve.

E il guaio è, che è anche subdola, e capita, a volte, che chi la manifesta nemmeno si accorga di farlo.

Anche io l’ho subita, purtroppo: uno dei miei figli ha un ritardo mentale.

Se ci ripenso, a quegli episodi, ora ci rido sopra, ma fino a qualche tempo fa, avrei preso tutti a sberle.

No, quello che mi ha suscitato la storia di Simone è AMMIRAZIONE: per lui, perché ha una tenacia pregevole; e per i suoi genitori, che si sono attivati in modo costruttivo per lui.

Come dicevo, la storia di ogni bimbo, è inevitabilmente anche la storia dei suoi genitori.

E questi genitori, ne hanno di cose da raccontare e anche di coraggio da vendere. Gli faccio i miei complimenti, sentiti e sinceri, ma non voglio prendermi il pregio di raccontare io, al posto loro, quella storia: è giusto che la leggiate voi stessi, dalle loro parole.

Cercate su fb “Simone Il Leone: storia di un bambino speciale”.

Spero tanto, caro Simone, che questo post, nel suo piccolo, possa essere d’aiuto a far conoscere la tua storia.



 

sabato 21 novembre 2020

INFORMAZIONE LIBERA

Qualche giorno fa, uno dei miei figli torna a casa da scuola, dove ovviamente, dichiara di non aver fatto nulla per l’intera giornata.

Con mestizia, mi rassegno, anche io come sempre, all’ignoranza, mitigata un pochino dall’ermetico registro elettronico.

Questa applicazione, dall’interfaccia per me familiare come il posizionamento degli anti-nebbia (che ancora non ho capito bene bene dove si trovino, di fatti se c’è nebbia io non esco in macchina), mi dona informazioni giornaliere tipo: “La rappresentazione dei numeri sulla retta orientata e l’insieme N”, dando per scontato che io sappia che cosa sia N, dove stia questa retta e anche dove sia diretta.

Che poi, se io fossi al posto della prof, scriverei in stampatello sul registro elettronico: “CHE COSA INSEGNO NON SONO AFFARI VOSTRI! STUDIATE, PIUTTOSTO, E DATE IL BUON ESEMPIO AI VOSTRI FIGLI, CAPRE!”, ma purtroppo c’è il patto di corresponsabilità e noi genitori pretendiamo di mettere il becco ovunque, anche se non capiamo un cippa.

Ed è proprio quello che mi è capitato di fare quel “qualche giorno fa” di cui dicevo in apertura, senza nemmeno rendermene conto!

Ossia, spontaneamente mi sono indignata per una serie di informazioni che sono state date in classe agli studenti. Informazioni di un’attualità cruenta, della quale in famiglia avevamo deciso di non parlare.

Per scelta, mio marito ed io non guardiamo telegiornali. Un po’ perché non crediamo nella loro indipendenza, un po’ perché Arancia Meccanica risulterebbe meno pesante, e visto che l’ora di trasmissione coincide con la cena, preferiamo evitare.

Dunque, il pargolo quella sera di qualche giorno fa, proprio a cena, dopo aver millantato di non aver fatto niente a scuola per tutto il giorno, ci racconta per filo e per segno quel fatto di cronaca nera delle ultime settimane, davanti ai fratelli.

Sinceramente e di primo acchito, mi è spiaciuto che il fatto sia stato raccontato a dei ragazzi secondo me ancora piccoli e forse incapaci di interiorizzarlo senza farsi impressionare. Tuttavia, a mente fresca, mi sono domandata se fossi nella ragione.

Non è, forse, libertà di un insegnante, decidere di che cosa parlare in classe? Non sta proprio in questo, il punto di forza della scuola? Altrimenti, tanto varrebbe che ‘sti ragazzi ce li tenessimo a casa, al riparo da tutto e da tutti.

In effetti, il problema non era la notizia divulgata, quanto piuttosto il fatto accaduto: quello era il vero baratro dal quale, come mamma chioccia, avrei voluto proteggerlo.

Piccola lezione per me: il mondo va avanti anche senza le nostre regolette new age, tipo “niente telegiornali a cena”. Allora, forse bisognerebbe più che proteggere, educare a non farsi scalfire.

Proteggendo all’infinito, non si rischia di non educare al dolore, allo sconforto, alla paura, al pianto e di lasciare l’educando in balìa dello sconforto? chiedo per un'amica.




sabato 3 ottobre 2020

PUNTI DI VISTA

Ho portato i miei figli (mio marito compreso!) a Roma, lo scorso week-end.

Avevo programmato questo viaggio breve, o week-end lungo, dipende da che prospettiva lo si voglia guardare, per marzo di quest’anno, ma l’ho dovuto, ovviamente, rinviare.

Voleva essere un modo per celebrare la fine di una fase, quella della Scuola Elementare, per Edoardo, e anche, o forse soprattutto, un modo, per me, di riprendere quel passatempo che ho sempre amato e iniziare a trasmettere la mia stessa passione per i viaggi anche al resto della famiglia.

Proprio con questa intenzione, ho scelto un albergo che si collocasse nel centro storico, affinchè se ne potesse godere la vista in ogni istante della nostra permanenza, e fare in modo che l’essenza stessa della Storia che trasuda da ogni Sampietrino, dai marmi, dalle fontane, dalle innumerevoli rovine ovunque sparse, ci penetrasse ogni senso.

Ho, poi, meticolosamente studiato una scaletta dei tempi che fosse consona alle età e alle capacità dei bambini, senza risultare faticosa e pressante. Lontani sono, ancora, i tempi in cui giravo un’intera città a piedi o coi mezzi pubblici, senza soste inutili per mangiare o riposare, per una giornata intera.

Ho scelto, dunque, le tappe più fruibili e, per loro, più accattivanti, pensando anche al programma scolastico affrontato o previsto.

Infine, ho prenotato i ristoranti più adatti per posizione e prezzo, in base alla mia tabella di marcia, e che fossero anche in grado di aggiungere la giusta nota di gusto e colore alla nostra esperienza.

Abbiamo visto l’Altare della Patria, piazza Venezia, il Campidoglio, Ara Coeli, piazza Colonna, Fontana di Trevi, la Galleria Alberto Sordi, il Quirinale, piazza di Spagna, Trinità dei Monti, la sala da the Babington’s, via dei Condotti, via del Corso, piazza Navona, il Pantheon; abbiamo visitato il Foro di Traiano, il Foro di Costantino, il Colosseo, la Basilica di San Pietro; in ognuno di questi luoghi abbiamo scattato foto e selfies.

Il mio programma è stato rispettato ed io mi ritengo soddisfatta, anche se, certo, mancano ancora moltissime altre tappe.

Tuttavia, se chiedeste ai miei figli (mio marito compreso!) le loro impressioni, vi risponderebbero che ha piovuto troppo, che avremmo potuto prendere più taxi e che ciò che gli è piaciuto di più è stato il giro al negozio di Tiger di largo Arenula…

 



















 


lunedì 14 settembre 2020

Vorrei, ma...

Vorrei scrivere un pezzo sulla crudeltà delle parole.

È tanto tempo che vorrei farlo, ma non trovo mai le parole giuste.

Vorrei essere capace di trasmette il disagio che si prova quando si sentono parole che ti feriscono l’anima.

Vorrei riuscire a imprimere, sulla pagina, la profonda tristezza che ti pervade quando vedi certi sguardi di disprezzo o di derisione.

Vorrei essere capace di far capire che non serve usare parole ricercate, per ferire, o atteggiamenti marcati per incupire.

Vorrei essere capace di diffondere l’idea che ogni parola ha il proprio peso ed ogni atteggiamento ha le proprie conseguenze sugli altri.

Anche scrivere questo pezzo, probabilmente, potrebbe risultare offensivo, o pesante, o pedante…o magari non lascia nemmeno un debole segno.

Vorrei riuscire a dire che i commenti sul fisico, qualsiasi essi siano, e per qualsivoglia scopo, risulteranno sempre sgradevoli, quando non devastanti, per chi li riceve, nella sua intimità, nei suoi momenti di riflessione.

Vorrei riuscire a dire che le battute che per far ridere usano le disgrazie degli altri, spesso si tratta di handicap, potrebbero risultare delle pugnalate nel petto di chi abbiamo di fronte, perché magari non conosciamo tutti i dettagli della vita dell’altro.

Vorrei riuscire a dire che le parole non dette sono le peggiori, perché restano sulla lingua e nella testa, e girano là dentro, senza sosta, e diventano tossiche per chi non le dice.

Vorrei riuscire a dire che bisogna dirlo, quando qualcuno ci fa male, per condividere un po’ di quel male che ci ha fatto e fare in modo che lo comprenda: perché magari non ne era neanche consapevole, povero stolto!

Vorrei…ma non ne sono capace.




giovedì 10 settembre 2020

Ricomincia la Scuola...?

Davvero un inizio scuola diverso dal solito.

Personalmente non mi sono mai sentita così agitata come quest'anno.

Oltre all’ansia che sempre mi accompagna quando ci sono eventi che coinvolgono i miei bimbi, e parlo  di ansia normalmente “buona”, ossia quella che mi fa amplificare le emozioni perché è come se rivivessi occasioni che mi sono capitate anni prima, quando ero io nei panni della figlia; ora ci sono attenzioni e preoccupazioni latenti, nei confronti di una realtà che dovrebbe trasmettere, invece, fiducia e sicurezza.

È proprio questa assurda dicotomia che stona e mi fa stonare, che confonde e non mi permettere di riavvicinarmi a quel mondo che abbiamo tanto invocato.

E questa è la seconda incoerenza che mi anima in questi giorni: ciò che ho sperato tanto in tempo di lockdown, ossia la ripresa delle attività di scuola e socializzazione, ora mi spaventa.

Mi preoccupa la possibilità che si possa essere coinvolti in un contagio e nella conseguente quarantena: sarebbe una realtà così complicata anche solo da pensare, figuriamoci da vivere.

Come ogni cambiamento, anche questo mi spaventa e credo che lo faccia perché stiamo vivendo una condizione completamente sconosciuta.

Ho interrogato i miei figli, per sondare il loro sentire: come al solito, sono riusciti a stupirmi.

Non v’è traccia, in loro, di alcuna delle mie paure, a conferma del fatto che i nostri figli non sono una nostra estensione. Per loro la Scuola continua ad essere il luogo che hanno lasciato mesi fa.

Sono felici di rientrare, e la stessa felicità l’ho scorta nei loro insegnanti, emozionati davvero. È stato bello rivedere quei volti, che ci hanno infuso fiducia e speranza anche quando di speranza sembrava essercene poca.

Io, invece, guardo a quegli edifici che tanto mi erano famigliari, come a luoghi minacciosi, sconosciuti; luoghi di formalizzazione e inquadramento di una nuova realtà, una realtà che lascia poco spazio alla fantasia perché, ora, è il tempo della concretezza arida e sterile, aggettivo davvero azzeccato.

Sì, è davvero un inizio scuola diverso dal solito. 

Mi sento di paragonarlo al mare piatto e minacciosamente calmo, con l’orizzonte cupo che ne segna il confine. Io vedo le nubi, ma forse dovrei imparare a godere dell’assenza delle onde e fidarmi di chi mi dice che il vento le porterà via.




lunedì 10 agosto 2020

BABY DANCE

Mi piacerebbe sapere che cosa abbia ispirato la mente di colui, o colei, il quale ha ideato la prima “Baby-Dance”. Che forse ce l’aveva con qualcuno in particolare, mi sto chiedendo?

Forse gli stavano sul culo quelli che alle nove di sera ancora non hanno finito di mangiare, quelli che si dilungano magari mangiando l’uva un acino per volta, dopo la cena, o quelli che gradiscono anche il caffè e l’amaro, perchè no. Forse dopo che hai i figli, la credenza comune vuole che tu non ti possa concedere di mangiare con lentezza, anzi prevede che tu debba sempre battere il tempo, stare attento al secondo.

Perchè queste cazzo di Baby-Dance iniziano tutte, ovunque tu vada nel globo, alle 21.

Porca-di-quella-miseria, roba che tu hai ancora i piatti neanche da lavare, ma proprio da togliere dal tavolo. Ma il pargolo spinge per recarsi in quel luogo ameno che è la pista da ballo, dove si potrà scatenare, dimenando il suo culetto al suono di musica gradevole quanto lo sciacquone del cesso alle sette di mattina.

Se dovessimo parlare della musica delle Baby-Dance, si potrebbe fare un trattato lungo come quello di Tocqueville sulla Democrazia americana.

Ci sono varie scuole di pensiero, infatti: abbiamo i dj temerari, quelli che scelgono appositamente le ultime hits dell’estate, per fare tremare la pista con lo zoccolo delle scarpe materne, zoccolo che si anima con evidente avidità, in quei momenti. A pensare male, si crederebbe che l’obiettivo siano proprio loro, le madri, che in effetti si rianimano, dopo aver bestemmiato in turco per aver dovuto ingozzarsi e aver sparecchiato raccogliendo tovaglia e tutto il resto dentro l’acquaio, in barba all’ordine.

Poi, ci sono i nostalgici, che mettono roba che copre un arco temporale che va da Canzonissima ‘68 all’ultimo Sanremo, passando per tutti i Festivalbar (e che cazzo è?), ma ripudia violentemente le ultime hits di cui sopra. Questi ultimi, i nostalgici, sono generalmente i preferiti delle nonne.

Ecco, proprio loro, le nonne: creature mitiche e mitologiche, che si sacrificano per accompagnare i nipotini in quella palude virtuale, lasciando i genitori a strozzarsi con l’uva e a sorseggiarsi i loro caffè; e i nipotini li vestono con colori sgargianti, in modo da riuscire riconoscere il proprio pargoletto in mezzo a tutte le creature tarantolate che riempiono la pista. Il risultato è che sono tutti vestiti come la regina Elisabetta e dunque irriconoscibili. La vera differenza la farebbe uno vestito color beige.

Un'altra creatura mitica e mitologica delle Baby-Dance sono gli adolescenti.

I maschi di questa specie non ballano, stanno generalmente a bordo pista, scrutano le femmine dei propri simili e fanno attenzione a non farsi sgamare a guardarle. Generalmente puzzano, ma non lo ammettono.

La femmina, invece, è in centro pista, anzi, se può scansa anche i piccoli e coloratissimi animaletti che si chiamano bambini, fingendo di non ricordare di esserlo stata lei stessa sino a poco tempo prima. Si dimena e mette in mostra le prime curve e, tra una mossa e l’altra, lancia sguardi alla platea dei maschi, che le paiono, invece, sempre poco interessati.

Parliamo, invece, dei Grandi Assenti: i padri.

Assomigliano ad apparizioni mariane, sono evanescenti. Hanno sempre qualcos'altro da fare, più urgente che non fermarsi a visionare il proprio figlio ballerino.

Mi ha chiamato Tizio”, “Aspe’ che c’è Caio” sono le scuse più gettonate.

Forse è un po’ anche per questo che, alla fine, alle madri non resta che starci dentro, a quella pista malefica, che sembra risucchiarti contro la tua stessa volontà e che poi, quasi fossi colpita da un incantesimo, ti fa ritrovare a ballare sulle note del Pulcino Pio o di Baby K, mentre tu sogni di sentire finalmente gli animatori che dicono a tutti che quello strazio è finito e che è ora di levarsi dai coglioni.

Ma quel momento arriva sempre troppo tardi, sempre dopo un Limbo o una Colita di troppo, e quando finalmente il liberi tutti arriva, tu mamma hai comunque male alle piante dei piedi e, a meno che tu non sia una di quelle dallo zoccolo allegro, non vuoi altro che tornartene a casa e metter fine alla giornata. Ma la notte è ancora giovane, tuo marito, o compagno che sia, sta ancora salutando Tizio o Caio e l’orologio segna solo le dieci…

domenica 5 luglio 2020

Mamme-Cenerentola

“E’ mio figlio, scusate”.

La vicenda della giornalista in diretta televisiva, che trasmette in collegamento da casa propria, e che viene interrotta dal figlioletto che le chiede se può avere due biscotti, ha fatto il giro del mondo.

L’ho letta anche io, su fb, non ricordo chi l’avesse condivisa, e subito mi ha fatto sorridere di tenerezza. Dopodichè ho continuato a scorrere le news senza stare a badarci troppo.

Mi è capitato, però, che la notizia mi tornasse in mente qualche ora dopo, senza un vero motivo per farlo.

In effetti, mi capita spesso che io legga qualcosa, subito mi procuri un certo effetto, e che poi quel qualcosa si sedimenti nel cervello per riproporsi più tardi, a distanza anche di giorni a volte.

Ci ho fatto caso, e questo mi capita sempre con quel genere di fatti che possono contenere tracce di elementi che il mio sentire, più che il mio cervello, fa fatica a digerire.

Sarebbe utile, forse, che in capo agli articoli si scrivesse “può contenere tracce di cattiveria, ignoranza, misoginia, razzismo…” così uno può decidere se leggere o meno, senza poi stare male dopo.

Invece ecco, a me è capitato come se avessi esagerato con i peperoni con la bagna caoda: il pezzo del bambino che chiede un paio di biscotti mi si è riproposto.

Mi è tornato su, perché non mi suonava qualcosa e non riuscivo a capire che cosa!

Allora ho riepilogato:

1)     1.  La mamma sta lavorando, chiusa in una stanza. Poveretta.

L’ho fatto anche io: per cercare un po’ di tranquillità, è anche capitato che mi chiudessi in bagno. Scelta pessima, perché ho scoperto che non appena entro in bagno io, a qualcuno scappa di fare qualcosa.

2)      2Il figlio della mamma di cui sopra entra indisturbato e senza farsi alcun problema, cercando la mamma per chiederle di fare uno spuntino.

Durante una video chat di lavoro piuttosto importante, che ho dovuto sostenere di recente, mio figlio più piccolo è arrivato urlante dalla cameretta dove l’avevo pregato di stare, in compagnia dei fratelli, perché voleva un bicchiere d’acqua. Necessità primaria e improcrastinabile.

3)     3  La mamma auto-confinata si scusa con il collega, spiegando che si tratta di suo figlio. E l’ha fatto per ben 3 volte! Addirittura dice che “E’ imbarazzante”.

4)     4.  Il collega in studio chiude frettolosamente il collegamento.

Ecco: il punto 3 non mi piace, proprio per niente.

In effetti, a mente lucida e razionale, mi chiedo di che cosa si dovesse scusare quella poveretta. Di avere un figlio? Di averlo biondo e non castano, magari? Forse si doveva scusare che il figlio le chiedesse solo due biscotti invece di tutto il pacco, come avrebbero fatto i miei; o magari dovrebbe scusarsi del fatto che il bimbo sia troppo educato per chiederglieli, i biscotti, invece di prenderseli e basta.

E poi, cosa dire del brusco cambio di inquadratura, dell’improvviso ritorno della ripresa dello studio e dell’impossibilità, per la giornalista, di chiudere il proprio intervento?

Per non parlare della sufficienza con cui il collega in studio chiude il servizio?

Guarda un po’, si tratta di un uomo…

Non giudico questa mamma-giornalista. Non lo faccio, perché penso che anche io mi sarei comportata come lei. Però non condivido la definizione di “Imbarazzante” legata all’accaduto. In effetti, sarebbe stato imbarazzante che le scappasse una puzzetta in diretta, oppure che facesse un rutto al microfono.

Ma mio figlio non lo definirei mai imbarazzante solo perché mi ha chiesto un biscotto.

E allora da qui mi partono un po’ di domande:  Con chi sarebbe dovuto stare il bambino, mentre la madre aveva questo impegno decisamente totalizzante?

Forse con il marito? Che però, poveretto, mica può sapere dove stiano i biscotti, e perciò deve aver detto, ingenuamente, al figlio “Chiedi a mamma” e lui ha eseguito. D’altra parte, un uomo non può fare tutto da solo!

Forse con qualche nonno? Che non è stato in grado di tenere testa a due occhioni dolci che gli hanno comunicato il bisogno primario di nutrirsi e dunque, poiché neanche il nonno o la nonna in questione sanno dove stiano i biscotti, è partito alla ricerca degli stessi, perdendo di vista il bambino affamato.

Forse con la TV? Forse il bambino era stato temporaneamente parcheggiato davanti alla tele e, dunque, nessuno è riuscito a frenare il suo istinto giornalisticida.

Personalmente, penso che con chiunque o qualunque cosa fosse, sentisse la mancanza della mamma e la volesse reclamare tutta per sé, proprio con la scusa di un paio di inutili biscotti.

E poi, che genere di pressione può avere subìto lei, e tutte noi con lei, in passato, a livello lavorativo ma anche di cultura famigliare, per considerare che un figlio non possa penetrare la sfera lavorativa, senza considerarlo fonte di imbarazzo?

Le nostre reazioni improvvise, ossia quelle che non vengono dettate da riflessioni accurate e nate da un periodo di comoda analisi, rispecchiano quello che è il nostro vero pensiero, perché non ci danno il tempo di rivestire il nostro agire delle maschere che ci siamo costruiti per piacere agli altri o per passare per accettabili in società.

Così, se mi trovassi in una situazione di pericolo, non saprei, sinceramente, se sarei in grado di mantenere la calma, che ostento sempre quando sono in pubblico: anzi, penso che mi metterei a correre il più in fretta possibile, magari urlando e facendo le puzzette!

Dunque, la concezione della madre come entità che esiste solo al di fuori del posto di lavoro, come essere che pensa alle sole vicende casalinghe (catalogate come “doveri”, altro tema sul quale bisognerebbe soffermarsi), e che si dissolve magicamente una volta che ci dedichiamo alle nostre attività per le quali veniamo pagati, è il punto di vista largamente condiviso, che però porta a quelli che sono gli scompensi e le difficoltà delle madri stesse.

I luoghi comuni che infettano i posti di lavoro, siano essi privati o pubblici, impiegatizi o operai, ne sono la dimostrazione: “Tanto quella ha i figli, figurati che gliene frega del lavoro”, “Tizia esce sempre alle cinque, perché deve andare a prendersi il bambino, mica ha voglia di fermarsi”, “Una volta che avrai i figli, cambieranno le tue priorità” e via dicendo.

E, purtroppo, questo germe della critica fine a sé stessa, molto spesso è presente nelle stesse donne, che riescono in questo modo ad innescare un programma autolesionista a lungo termine. E al diavolo la solidarietà femminile, quella davvero un’entità estratta che difficilmente si manifesta.

In questa vicenda, invece, abbiamo a chiusura l’importante intervento del maschio-alfa, che ricorda a tutto il pubblico che ci sono dei doveri domestici cui assolvere e che l’entrata in scena del marmocchio ha rotto l’incanto della diretta, facendo tornare la mamma-giornalista solo mamma-cenerentola.

Purtroppo, per le mamme-cenerentola il Principe Azzurro non esiste, perché per la nostra società non sarebbe abbastanza macho e neanche fate madrine, perché in realtà le donne sono spesso stronze.

Restano due grandi interrogativi: il pupo, li ha poi avuti i suoi biscotti?

E poi: se al posto di una mamma, ci fosse stato un papà, come si sarebbero svolti i fatti?

Tento di rispondere a quest’ultima domanda: in aiuto del “povero” papà-giornalista, indebitamente interrotto dal figlio incosciente, sarebbe arrivata certamente una donna, magari la mamma, magari una tata (più facilmente la tata, perché alla mamma non sarebbe sfuggito);  il giornalista da casa e quello in studio si sarebbero fatti una gran risata e il servizio si sarebbe concluso regolarmente, com’è giusto che sia.

 

 

 

 

 

 

 

 


venerdì 29 maggio 2020

I Re Mida dei nostri rompiballe

Questo pensiero è per gli Insegnanti d’Italia. Per le Maestre e i Maestri dei nostri piccoli rompiballe, per i professori dei nostri adolescenti fragili e dei pre-adulti cazzari.

Quante volte ho detto, parlando di un istituto scolastico, “La vera differenza la fa l’insegnante”

Ed è vero. Perché nella scuola lo vedi davvero che è la persona che plasma il proprio lavoro e tutto ciò che fa e che tocca, anche solo virtualmente, mettendoci del proprio.

Allora voi Insegnanti potreste essere definiti i Re Mida dei nostri figli.

Perché siete Voi che li accogliete, mentre noi genitori siamo chiamati ad altro; siete voi che li formate dal punto di vista istruttivo, e non semplicemente ripetendo le stesse cose per anni, perché quello che fate è molto più che ripetere. E, detto tra noi, anche io ripeto le stese cose da undici anni, oramai, ma a me non ascolta nessuno…magari mi date due dritte?

Siete sempre voi che consolate il ragazzino che è stato mollato, o il bambino che non riesce a giocare con i compagni perché si vergogna. Perché con noi genitori spesso non vogliono parlare e si fingono distratti per non farci capire cos’hanno dentro, e noi troppo spesso siamo ancora più distratti di loro.

E dunque, mi sono chiesta: come avete fatto, cari Insegnanti, a resistere tutto questo tempo senza le vocine dei nostri piccoli e grandi rompiballe?

Come avete fatto a stare senza i “Ciao Maestra!” urlati alle otto e mezza del mattino?

Oppure i “Oh prof, com’è?” dei galletti imberbi e brufolosi?

Come avete resistito senza i loro abbracci spontanei e inaspettati? E le loro risate, le loro lacrime, i loro capricci (che non hanno età). Insomma: la loro essenza, l’Essenza Bambina che è l’anima della Scuola stessa, di ogni grado. Non per niente esiste l’Esame di Maturità, perché dopo quello l’Essenza Bambina la devi mettere da parte devi diventare maturo, e noioso.

Ma qualcuno la mantiene, e allora diventa un bravo  insegnante. Non tutti, solo quelli che sanno “fare la differenza” ce l’hanno, e sono quelli che ti fanno amare un libro per tutta la vita, quelli che ti avranno fatto capire quella cosa che proprio non ti entrava in testa. Quelli che ti hanno detto che anche tu vali.

Sinceramente, io non so se sarei riuscita a resistere. E penso soprattutto a quegli insegnanti degli ultimi anni, che si sono persi un passaggio importante di crescita. E' come rimanere in sospeso, non aver finito qualcosa, portarsi dietro un incompiuto che non si potrà compiere.

Le indicazioni sulla ripresa del nuovo anno scolastico parlano ancora di distanziamento sociale.

Ma la Scuola non può convivere con il distanziamento sociale: sarebbe come un fiore senza profumo, bello, ma assente.

Come farò a confidarmi? Come farò a consolarmi?

Questa situazione estrema ci porta all'esasperazione dell’individualismo, mascherato, è proprio il caso di dirlo, con la presenza fisica ma in condizioni sicurezza. Insomma, ci sono ma non mi considerare.

Allora credo che il nuovo anno scolastico sarà ancora più duro, perché Vi costringerà a trattenere gli abbracci, ad esserci ma a debita distanza. Perché la Scuola è anche e soprattutto fisicità. È il linguaggio del corpo che tante volte riempie il vuoto, laddove le parole servono a poco.

Sarà dura non far inaridire le emozioni, sarà dura non far trasformare quella che è la vostra missione, in semplice e arido lavoro.

Sarete pochi a riuscirci e a Voi pochi va il mio grazie di mamma.

 

 


mercoledì 27 maggio 2020

PAGELLE

Stanno per arrivare le PAGELLE, e un urlo mi sale dal petto: ODDIO. 

OH MY GOD, se siamo nell'ora di inglese.

Mai come quest’anno le sento come se dovessero essere un’espressione di voto su di me.

Maestre, giuro che mi sono impegnata moltissimo. Magari non da subito, eh! Perché, in fondo, ma anche in superficie, io sono un’ottimista e quando ci avevano detto che la scuola avrebbe riaperto il 6 marzo, bhe, io ci avevo creduto!! Pensate che avevo anche già preparato la schiscetta per il pranzo dei miei figli.

E quindi, non ero proprio preparata alla gran botta della DaD.

Se per i bambini DaD sta per Didattica-a-Distanza, per noi genitori “Daje-ancora-Daje” sarebbe la traduzione più corretta.

Arriveremo sui gomiti al 10 giugno, ma “Ce la faremo!!!”

Tra Smartworking e DaD non so più distinguere tra me e il mio avatar.

Ci sono giorni che mi sveglio e non capisco se sto dentro al computer di mio figlio, che poi sarebbe il mio ma glielo devo prestare e ne rientro in possesso a tarda notte per farmi i fatti miei (che i fatti miei-miei non esistono neanche più, sarebbero in realtà i fatti miei-del-lavoro).

Allora capita che appena apro gli occhi, cerco la cartella “Compiti Genoveffo, settimana XYZ”. E il problema è che non la trovo! E lì partono tutte le parolacce che alle sette di mattina riesco ad inanellare una dietro l’altra, senza mordermi la lingua.

Poi il mio cane mi lecca la faccia, e allora mi sveglio davvero. Ma siccome c’è già chi mi chiede la colazione, e io sono ancora lì che devo fare attenzione a non mordermi la lingua, forse era meglio se restavo in compagnia del mio avatar a cercare quella stramaledetta cartella dei compiti.

Maestre, tornando a noi, ho studiato. Ho ripassato i Romani; ad esempio, lo sapevate Voi che Stilicone ha sconfitto Alarico a Pollenzo?!

Diciamo che questa DaD mi ha dato conferma anche di cose che già immaginavo. Ad esempio, Storia mi piace, già mi piaceva prima. Se serve, vi faccio avere le mie pagelle di trent’anni fa, potranno confermarvelo.

Altra conferma arriva sul fronte della Matematica: ero e sono una capra assoluta. Che in realtà, quando in Scienze si studiano gli ovini e i caprini, mica trovi tra le caratteristiche che non ci capiscono una mazza in matematica... 

Grammatica mi annoiava prima e continua ad annoiarmi ora: troppi complementi, non bastava dire “soggetto-verbo-complemento” senza stare a specificare troppo? Che poi, a furia di specificare, si arriva all’atomo della frase e poi non ci si ricorda che cosa si voleva dire! Per non parlare di “verbo”, “predicato verbale”, “predicato nominale”…a volte capita che faccia una grande insalata. Però alla fine non mi esprimo così male…insomma, sono brava ma non mi impegno.

No, non è vero, mi sono impegnata, giuro!

Anche in condotta, posso dire di essere stata piuttosto paziente, gradevole, rispettosa delle mie regole. Solo, a volte mi fregano le parolacce delle sette si mattina, quelle che mi fanno pizzicare la lingua.

Geografia mi ha fatto ricordare un binomio che ha accompagnato i miei anni di elementari: “agricoltura e pastorizia”, un’accoppiata vincente per mezza Italia, se non ricordo male. Adesso ho visto che non si fanno più i lucidi delle cartine delle varie Regioni. Quando andavo a scuola la mia Maestra ci faceva fare i piccoli amanuensi: cartine geo-politiche ricopiate su fogli lucidi, con fiumi,  laghi, colline, insomma tutto il corredo. Solo che su quella carta lucida dovevi calcare per lasciare un minimo di tratto colorato e a fine cartina avevi finito anche la cartilagine di tutta la mano e del polso.

Arte è sempre stata la mia ora preferita. Tecniche, colori, disegni liberi e rivisitati. Da grande avrei voluto fare l’artistico, ma all’epoca non si “usava” e a volte mi chiedo come sarebbe stato.

Di arte quello che mi colpiva di più erano i professori che ce la insegnavano: tipi bizzarri e stravaganti. Arrivavano in laboratorio come fossero delle trottole e per tutta la lezione giravano tra i banchi, facevano provare tecniche, piroettavano da uno studente all’altro, non si fermavano mai. Poi, come arrivavano, se ne andavano, perché non me ne capitò mai uno di ruolo.

English: la frasetta "Two is megl che One" ormai mi accompagna da trent'anni.  I capelli della rossa nella pubblicità erano semplicemente MAGNIFICI! Quando ho provato a farli io, sembravo Medusa. Ci provai per moltissimo tempo, e ne ricavai un gran trauma. Forse dovrei fare causa alla Motta.

Di Religione, ho recitato rosari e preghiere in chiese semivuote, che un po’ di effetto faceva a vederle così.

Infine, Educazione Motoria: quella mi manca, ma ho la giustifica, ve la posto in classroom




sabato 16 maggio 2020

LE SERIE TV MADE IN ITALY

La serie che ha appassionato gli italiani in questi mesi è giunta al termine della sua prima stagione.

Ovviamente parlo della serie “Il Conte”.

Dai dati, è emerso che il gradimento ha raggiunto livelli altissimi, per la tv pubblica, mai visti nemmeno dal Festival di San Remo.

Un ulteriore approfondimento ha fatto notare come a gradirla maggiormente sia stato un pubblico di sesso femminile: evidentemente stufo della solita zuppa di cavolo che il lockdown gli proponeva nel talamo matrimoniale, queste femmine (o sedicenti tali, fino a nuova riapertura di estetisti e parrucchieri) si buttavano sulla fantasia sfrenata di essere lockdownate pure loro a suon di DPCM un-due-tre-stella!

Ora sarà dura affrontare le interminabili serate che vanno naturalmente allungandosi, senza quell’appuntamento sul piccolo schermo di casa, che ci spingeva ad affrettarci a consumare un pasto in quell’occasione frugale, in modo da tuffarci tutti sul divano e assorbire quelle parole chiarificatrici e nutrienti per lo spirito. Forse, è qui che si spiega il gradimento femminile: essendo ripiombati ufficialmente indietro di cinquant’anni, alla donna di casa resta da rassettare la cucina, e quando lei finisce è finita anche la puntata e lei sente solo più i saluti finali, pronunciati facendo l’occhiolino malizioso.

Leggevo che qualcuno paventava la possibilità di nuove puntate in autunno, resta da capire se si tratterà di una replica o di nuovissimi episodi, densi di novità, che anche in quel caso ci invidieranno in tutto il mondo.

Nel frattempo, sempre sulla TV pubblica, ma più in sordina, pare stia prendendo piede una nuova serie, che sembra stia guadagnando velocemente terreno anch’essa, ma con un target di pubblico affezionato agli horror: “Non aprite quella Scuola”.

Parla di una ragazzetta carina e simpatica, che però poi inizia a parlare e allora cominciano i guai: studenti che devono infilarsi lo zaino all’ultimo e di corsa per andare a scuola, ma che poi la scuola non la trovano perché è stata disinfettata talmente bene che le pareti si sono sciolte, con dentro pure tutti gli insegnanti.

Sembra un incubo, ma il palinsesto ha confermato il prosieguo della trasmissione, promettendo puntate nuove e dense di colpi di scena almeno per tutta l’estate.

Stay tuned!


martedì 12 maggio 2020

IL MITO DELLA CAVERNA

Alla luce degli ultimi fatti di cronaca, ma anche a seguito della lunga, lunghissima reclusione dovuta all’emergenza sanitaria, è nata in me l’idea che la nostra condizione si possa facilmente assimilare al mito della Caverna di Platone.

Il Mito della Caverna rappresenta totalmente il pensiero di Platone.

La Caverna è popolata da schiavi che, incatenati, possono vedere solo le ombre, proiettate sulla parete di roccia, di ciò che è il mondo esterno. Questo, inevitabilmente, li porta a farsi un’immagine propria del mondo esterno, che non collima con la realtà. Inoltre, se all’improvviso gli schiavi venissero fatti uscire all’esterno, i loro occhi non si abituerebbero alla luce accecante e proverebbero addirittura fastidio per la nuova libertà ottenuta.

Le nuove gocce di libertà che ci sono concesse in questi giorni, rigorosamente cadute da un alto che più alto non si può, sempre dietro il tipo di ricatto che generalmente io uso con mio figlio più piccolo (“Se fai il bravo ti do una caramella”), su di me stanno avendo l’effetto contrario a quello che si dovrebbe riscontrare: ossia, ho meno voglia di prima di fare le cose.

Non credo si tratti di ripicca, ma più di rigetto. Rigetto verso una finta libertà, rigetto verso un modus operandi che non condivido. Insomma: mi è passata la voglia, come si dice.Perché per fare le cose, devi avere tu, per primo, voglia di farle. E invece quello che mi sembra di respirare in giro è un po’ la stessa atmosfera che aleggia prima di capodanno: bisogna festeggiare perché si deve fare, e basta. Che a saperlo prima, l’ultimo veglione sarebbe stato meglio farlo interamente in preghiera.

La Caverna mi ha assorbita e mi sta tentando. È più facile, obiettivamente, guardare il mondo dalla Caverna, perchéti viene fornito con le istruzioni per capirlo. Istruzioni scritte da chi nella caverna, ovviamente, non ci mette piede. Insomma, spegni il cervello e ti metti in modalità stand-by.

Il problema poi si pone quando e se dovrai uscire: il sole ti accecherebbe con tutte le sue altre versioni di quel mondo che pensavi di conoscere per davvero.

Prendiamo anche un caso, ovvio, logico, eclatante: una ragazza viene liberata, dovrebbe venire naturale gioire. Invece no, perché le ombre sulla parete interna si deformano, e invece che la gioia proviamo rancore perché quella che vediamo non è la ragazza oggettiva che altrettanto oggettivamente è stata liberata.

No, noi vediamo le nostre proiezioni di lei, fatte di invidia perché noi quel viaggio non avremmo mai avuto il coraggio di farlo; rabbia perché con tutti i soldi che hanno pagato per liberarla, noi ci saremmo comprati chissà che cosa (neanche se ce li avessero promessi, quei soldi; che poi, di quanti soldi si tratta neanche lo sappiamo per certo).

E così via, in quella caverna, in quel cul-de-sac che è il nostro piccolo mondo, spesso provinciale e meschino, crediamo di avere la soluzione a tutto, perché siamo onniscienti, grazie ad una scienza infusaci da chi ci vuole proteggere tenendoci incatenati a delle convinzioni basiche e sempre verdi, come alcune piante.



 

 

 


domenica 10 maggio 2020

LA MAMMA, ESSERE MITOLOGICO

Le Mamme, delle volte, hanno le bici scassate. Le vedi, nelle uscite a due ruote di tutta la famiglia, e le riconosci subito. Mica dai capelli lunghi e dal rossetto pure con la tutina da fitness, no.

Il Padre ha una mountain bike di ultima generazione, con il tubo per il nos e la scocca metallizzata.

I bambini, se sono maschi, hanno generalmente una versione mignon di quella del padre, se sono femmine hanno la stessa versione del padre, ma rosa. Poi arriva lei, la Madre, che chiude la fila, con la mitica Graziella anni 80 e, normalmente, un seggiolino ancora attaccato sul portapacchi posteriore, reminiscenza dell’infanzia dei suoi figli che il Padre non ha ancora, dopo almeno sei anni, trovato il tempo di levarti dal dietro al sedere.

Le Mamme delle volte hanno lo smalto un po’ sbeccato, di solito sul pollice o sull’indice, proprio lì dove l’unghia sta vicina alla pelle. È il risultato dell’ultima riunione con gli insegnanti, quando si sono sentite dire come sono veramente i loro figli mentre non ci sono loro a sorvegliarli.

Le Mamme magari non hanno sempre la piega fatta, però c’è sempre una torta in forno e una pasta pronta, ed è sempre quella che ci piace di più.

Le Mamme capita che siano poco fashion, perché c’è sempre da rincorrere qualcuno o qualcosa, e allora il tacco ti può scappare e la gonna può svolazzare proprio nel momento meno opportuno.

La Mamma è un essere che vive di notte, ma non lo sa. Viaggia in tutto il mondo, dà il bianco alla casa, cambia auto, fa progetti per la vecchiaia e li realizza pure. Poi si sveglia con un gran mal di schiena che nemmeno lei si spiega, visto che i muri della casa sono di nuovo sporchi: qualcuno deve averli sporcati, e deve essere stato il padre, sicuramente!

Se cerchi “Mamma” sul dizionario, esso ti dice “La donna che ha concepito e partorito", ma il vero significato è “essere imperfetto, a volte disordinato e che urla dietro ai figli per avere ordine, che si sveglia al mattino sognando già il momento in cui tornerà a dormire, e comincia a dare istruzioni su come svolgere la giornata in maniera precisa, istruzioni che nemmeno lei seguirà; e, dopo aver passato il 90% delle sue 24 ore ad urlare, se ne va a letto dispensando bacini della buona notte ai figli addormentati”. 

E quando i figli dormono, lei pensa finalmente di potersi dedicare a quello che le piace: una bella maschera sul viso, un libro, una tisana, magari anche tutto insieme. 

Ma poi, per sbaglio, chiude gli occhi e arriva Morfeo che la frega di nuovo!




mercoledì 6 maggio 2020

La pandemia della gente perbene

All’inizio ci hanno detto una cosa terribile: restate in casa.

Eppure chissà quante volte l’avevamo sognato, di potercene stare chiusi in casa, senza far niente. “Eh, ma come, adesso che te lo dicono addirittura i grandi capi, stai a lamentarti?”

E allora ci abbiamo pensato su, e magari ci siamo anche sentiti delle merde, a lamentarci.

Allora, per rinforzare questo sentimento, pallido, di colpa, ci hanno caricato con metafore guerresche: “I nostri nonni a combattere nelle trincee, tu sul divano!”

E vai di flash mob sui balconi. Inni d’Italia che si sprecavano, intervallati dagli applausi ai guerrieri dei nostri giorni, tutto il personale medico italiano e pure quello straniero accorso in aiuto. Tutti eroi, che fino a qualche giorno prima magari abbiamo pure mandato a stendere perché non ci facevano l’esame entro i tempi che volevamo o ci facevano fare due ore di coda all’accettazione.

Ma va bhe, quella era un’alltra storia, anzi, un’altra vita! Adesso, siamo tutti cambiati, siamo tutti migliori.

E però quella sensazione che qualcosa non ci tornasse, che dentro ancora si agitasse una sensazione di libertà negata per colpe altrui, ogni tanto si faceva sentire.

Allora vai di altri flash mob, vai di arcobaleni e canzoncine da imparare. Quando non arrivavano direttamente o indirettamente gli insulti da parte dei più virtuosi, che virtuosamente sprecavano gli “egoista” o i “vergognati”. Vergognarmi per cosa? Per pretendere il rispetto delle libertà di tutti, non solo le mie? Per pretendere chiarezza sulla gestione dell’emergenza e dei soldi che arrivavano dalla UE, sempre per l’emergenza? Per pretendere il rispetto degli anziani rinchiusi in prigioni di morte? Per difendere la libertà di scelta su eventuali vaccini?

Ma poi arrivavano la pizza e i tiramisù, e ci pensavano loro ad anestetizzare gli animi di entrambe le fazioni.

Abbiamo fatto i dolci in casa, come le nostre nonne italiche, e tonnellate di lievito se n’è andato per le pizze. Uh, quante pizze abbiamo fatto. Per forza, abbiamo preso tutto il lievito che c’era al supermercato.

“Ne ho lasciato per gli altri? Eh no, ma io sono arrivata prima!”

Arrivare prima è ormai il leit-motiv di questa quarantena: arrivare prima per mettersi in coda davanti al supermercato, arrivare prima e accaparrarsi più mascherine possibile, arrivare prima e evitare la massa di gente.

E così, dal primo giorno di reclusione abbiamo subìto una mutazione.

Se già prima eravamo esseri fondamentalmente egoisti e vagamente asociali, queste peculiarità sono fiorite nella primavera quarantenica, cosicché la gente è diventata il vero nemico là fuori.

La percezione, e  la perversione, del rischio ci ha portato a individuare il pericolo nell’altro. E ognuno ha il suo altro, che non sarà uguale al mio o al tuo.

Poi però ci sciacquiamo la coscienza mettendo un pacco di pasta al fondo della chiesa: così ci sentiamo ripuliti, adesso che nemmeno ci possiamo più confessare. Chissà quante ore ci dovrà tenere il povero confessore, quando riusciremo a trovarne uno.

E in tutto questo mondo migliore, mi chiedo una cosa: se ci capiterà di vedere qualcuno che cade dalla bici per strada, o se una signora anziana ci chiederà una mano per salire o scendere da un bus o dal gradino del panettiere, che ne faremo del distanziamento sociale?

 


giovedì 30 aprile 2020

I MAGGIO FESTA DEL LAVORO


Ci siamo addormentati in inverno e così restiamo assopiti, anche ora che è primavera.
E la primavera è arrivata in punta di piedi, ogni tanto frizzante, ma non troppo, quasi a non volerci disturbare o, peggio, deridere.
Ha più rispetto lei, di noi, di quanto noi ne abbiamo mai avuto né per lei, né per noi stessi.
Oggi è il I maggio, un giorno rosso sul calendario e nei cuori.
Oggi piove sulle nostre case, chiuse, e sulle nostre anime, stracciate alcune, addormentate altre.
Oggi doveva essere la festa del lavoro, ma è un giorno uguale a ieri e a domani.
Ricordi si accavallano nelle nostre menti, e fatichiamo a credere al presente, mentre dell’avvenire abbiamo più paura che fiducia.
Difficile essere positivi, eppure…
Eppure la Primavera è arrivata, ed ha avuto riguardo e gentilezza per noi.
E arriverà anche l’estate, spumeggiante e arrogante, e poi l’autunno scontroso e poi un altro inverno, sfuggente.
Le feste, le proteste, sono sovrastrutture magari vecchie, magari confuse, magari fuorvianti.
Ci vuole adeguamento e non adagiamento.  
Che abbia ancora un senso, dopo tanti anni di assenza, e ora più che mai, una festa “del lavoro”?
Non avrebbe forse più senso una giornata per celebrarne l’assenza, l’inadeguatezza, le diverse forme di sfruttamento mascherate da contratti per le nuove generazioni, o la mancanza di paracaduti sociali per chi è troppo vecchio per lavorare e troppo giovane per non farlo più?
Forse, se ce lo sbattessero in faccia almeno una volta all’anno quanto questo lavoro manca o quanto sia sottopagato o svilente o vicino alla parola “schiavitù”, ecco forse almeno per un giorno saremmo costretti, tutti, a pensarci. Tutti, anche quei pochi lavoratori che stanno al caldo, ormai, e non ricordano più certi freddi anche in piena estate.
Buona festa del Lavoro, ancora una volta.

lunedì 27 aprile 2020

NO!


Non appena  ho scoperto che sarei diventata mamma per la prima volta, il mio cervello si mise in modalità “apprendimento ossessivo compulsivo”: ossia, aveva deciso che entro i nove mesi io avrei dovuto imparare ed assimilare tutto ciò che le Donne avevano incamerato sì e no a partire dalla nascita del mondo, o giù di lì, sino ai giorni nostri.
Mi procurai e lessi ogni genere di libro di puericultura e che affrontasse il nascituro da ogni punto di vista: la nascita, l’attaccamento alla madre, le prime malattie comuni, quelle meno comuni, quelle rare, quelle non ancora scoperte; i dentini, la diarrea; i sorrisini, il sonno e i giochi, passando dall’ allattamento al seno ad oltranza, pure fino alla maggiore età, fino alla figura del padre usata come carta da parati di fronte a queste madri-matrone onniscenti e preveggenti.
Fu così, ad esempio, che mi feci, grazie ad un apposito saggio, una grande cultura sul sonno e sulla sua gestione, regalandomi, dopo le innumerevoli notti insonni fatte di pianti e strilli dei primi tempi, altrettante notti insonni fatte sempre di pianti e strilli. L’unica differenza era che le prime notti insonni erano inconsapevoli, mentre le seconde erano state liberamente decise da me.
La cosa meravigliosa era, e continua ad essere, una: non appena arrivo a completare un livello di questo gioco, ecco che se ne sblocca un altro e devo ricominciare da capo. Il che significa, che non appena riesci, in mezzo al tuo rincoglionimento cronico, a capire le regole della prima infanzia, ecco che ti accorgi che il pupo ha l’età per frequentare in maniera costruttiva altri bambini e … hop! È saltato dall’altra parte del suo primo steccato della vita: la Socialità.
Tuo figlio è il migliore di tutti, ma come farà ad abbassarsi al pari degli altri?? È un’ingiustizia. Eppure la devi sopportare, e così sospiri, mandi indietro le lacrime di orgoglio, e lo mandi alla Scuola Materna, pardon, dell’Infanzia, come tutti gli altri.
Sarà difficile, ma realizzerai che anche gli altri bambini riescono a scaccolarsi con nonchalance proprio come il tuo royal baby, e che anche gli altri fanno la cacchetta puzzolente come il tuo. Questa cosa ha dell’incredibile.
Dunque, superato il primo momento di stupore, e realizzato che tuo figlio, quello Royal, in realtà è un cazzo di teppistello col pannolino, arriva per te, neomamma col master, il momento più difficile: quello dell’educazione alla Convivenza.
Arriva dunque, il momento in cui bisogna scardinare dalla testa del suddetto Royal Baby l’idea, seminata perlopiù dagli amorevoli nonni, che lui sia il Re di tutti e che tutti siano i suoi sudditi, e dunque che non può sempre ordinare qualcosa perché quel qualcosa effettivamente gli arrivi. Insomma, arriva il tempo di una parolaccia, triste, nera, maleodorante, fastidiosa: NO.

Personalmente ho scoperto una grande e inaspettata verità: nel rapporto genitori-figli il NO fa più male a chi lo dice.







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