Chi sono

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Sono Daniela Spagnolo, Scrittrice di Donne e Blogger di Positività e Ottimismo Nel 2011 ho creato il mio blog personale, http://danielaspagnolo.blogspot.com/. Nel 2013, in self publishing, ho pubblicato Fate Moderne, un romanzo che parla di donne, e nel 2016, sempre nella stessa forma, La gente perbene e la ragazza del mercato, un mite giallo ambientato nella mia Torino. Sempre a Torino è ambientato il libro Il silenzio del Tempo, edito dalla casa editrice 96-rue-de-la-fontaine nel 2018. Infine nel 2021 esce DORA, un noir ambientato in una cittadina alle porte di una città più grande. Questo romanzo si pone l’obiettivo di essere il primo di una serie di noir ambientati sempre nella stessa curiosa cittadina. Con questo libro, inoltre, sono stata presente al Salone Internazionale del Libro di Torino ed. 2022, con firma-copie

mercoledì 1 marzo 2023

ANESTETICO

 “Qual è il tuo anestetico preferito?”

“Come dici, scusa?”

“Come preferisci addormentare il cervello?”

“Scusa, avevo capito anestetico…”

Sì, infatti…ma non importa. E dunque?”

“Ma allora… guardo la vita degli Altri”

“E ti piace?”

“No. Mi fa sentire una merda”

“In che senso, scusa?”

“Nel senso che vedo che gli Altri fanno sempre tutto ciò che vorrei fare io e che non faccio”

“E sarebbe?”

“Bho, adesso non mi viene in mente”

“Ah”

“…”

“E perché tu non lo fai?”

“Non lo so”

“Ah”

“E tu, invece?”

“Ah, no. Io lavoro”

“Cioè?”

“Io non ho tempo per niente, neanche per pensare”

“Ah. E quindi non hai un’opinione su nulla!”

“Al contrario: io ho sempre la verità in tasca”

“Perché?”

“Perché io lavoro. So tutto. Non perdo energia in stupidi passatempi; non perdo tempo ad ascoltare quello che ha da dire la gente. Mi bastano le mie idee, che sono corrette, esatte, perfette”

“Ah, ecco…”

“…”

“Ma, hai sentito di quella tragedia che…”

“No, non mi interessa. Devo lavorare”



 

lunedì 16 gennaio 2023

Una mela sarà sempre una mela...?

Una mela sarà sempre una mela; lo stesso sarà una pera, una banana, un caco, un chicco d’uva, e così via.

Tutte, nella loro diversità, compongono un mondo che diventa, così, variegato. Se voglio dolcezza, sceglierò magari una fragola, piuttosto che un’arancia, che invece andrà benissimo per una sferzata di energia o una pausa vitaminica.

Possiamo scegliere, e nessuna di loro si lamenterà.

Ma il vero punto di partenza di questa riflessione un po’ allucinata è un altro.

Durante le vacanze di Natale ho acquistato un cedro. Era gigante e l’ho comprato per dare colore alla tavola.

In effetti, data anche la sua mole davvero notevole, si è fatto notare e lo ha fatto con eleganza.

La sua buccia, gialla fluo, risaltava sui colori natalizi e dava un sentimento di esotico accanto alla frutta secca.

Tutti lo guardavamo, però nessuno osava toccarlo: era il re e là doveva stare indisturbato.

Finite le feste, mi sono decisa ad andare oltre il senso visivo. Mi sono detta: tanto splendore, avrà certamente un segreto di gusto e sapore inimitabili.

Ho affondato il coltello in quella buccia che mi aveva incantata sin da quando l’avevo “incontrato” per prima volta sul banco della frutta.

Sorpresa: non finivo più di affondare! Ho scoperto che la scorza era molto alta. La parte dentro era di un bianco luminoso almeno come il giallo esterno e, soprattutto, sprigionava un profumo inebriante. Si era attivato un senso che, in amore, si dice che vada a braccetto con la vista: l’olfatto.

Normalmente attivato da ormoni che vanno a colpire certi ricettori nascosti e sconosciuti a noi stessi che li ospitiamo, i profumi e gli odori sono in grado di amplificare il sentire e anche di sbloccare i ricordi.

Man mano che procedevo con lo sradicamento della scorza, il profumo aumentava ed era avvolgente; inoltre, come un tesoro, pian piano appariva il frutto interno, celato e custodito come una perla rara e preziosa.

Sentii l’urgenza di liberarlo da quella specie di prigione. Pensai: se i presupposti sono questi, gli spicchi saranno qualcosa di paradisiaco per le mie papille gustative.

Ripulito il nucleo di quella che immaginavo essere una bomba di piacere, non me la sentii di gettare via la scorza: la riposi in un piatto, era troppo bella e profumata per essere buttata via. Meglio attendere.

Mi rivolsi, ora, al frutto: risultava pallido, tirato, in alcuni punti addirittura molto asciutto.

Non era così che me l’ero figurato.

Provai a estrapolare uno spicchio e fu molto difficoltoso. Avevo immaginato che fosse come un’arancia: naturalmente disposta a lasciarsi disgregare per farsi meglio assaporare.

Dopo aver immerso totalmente le dita di entrambe le mani in quella polpa fredda, riuscii, finalmente, nel mio intento. E addentai.

La lingua si ritirò; i denti si serrarono; le spalle si alzarono; il collo si incassò; gli occhi si chiusero.

Mi ero lasciata ingannare dai primi due sensi, convinta che mi avessero già da soli svelato la reale natura di quel frutto.

Non avevo, invece, utilizzato per nulla il cervello.

Fu come mangiare un limone, forse, se possibile, un pochino più aspro ancora.

Come avevo potuto credere che, un frutto della stessa famiglia del limone, non fosse così? L’aspetto maestoso mi aveva tratto in inganno. E lo aveva fatto ancora di più il profumo che quel frutto traditore sprigionava sia da chiuso che, ancora di più, una volta aperto.

Guardai la buccia. Quella bellezza visiva e olfattiva era totalmente inutile per la mia lingua: come poteva essere giustificato tanto spreco?

Un cedro è così perché la sua natura è così: non lo sceglie. E non potrà mai esserci un cedro dolce. Se ci fosse, sarebbe il risultato di un maneggiamento della sua natura più interna, quasi della sua anima, se ne avesse una.

Sta proprio qui io punto: è l’anima che fa la differenza? Io credo di sì.

L’anima del cedro era ben celata da una scocca che ben si integrava nelle aspettative.

Normalmente, noi scegliamo la nostra scocca sulla base di queste convenzioni.

E, sempre normalmente, ci facciamo anche ingannare dalle altre scocche.

La differenza è che, se una mela sarà sempre una mela, e così sarà una pera, una banana, un caco, un chicco d’uva, fino al nostro cedro, noi invece possiamo scegliere: scocca o nucleo? Esteriorità o interiorità?

Ma addirittura, la magia sta in qualcosa di ancora più profondo: possiamo addirittura riuscire a rompere tutti i canoni, a mischiare i colori, a sfondare tutti i cliché: possiamo addirittura avere del belo tanto nell’interiore quanto nell’esteriore!

Ovviamente, ci sarà sempre chi negherà persino l’evidenza.

 

 


 

 

 

 

martedì 29 novembre 2022

Il Potere della Scrittura

Oggi ho ricevuto un biglietto in buca.

Un bigliettino. Cioè, voglio dire: fantascienza!

Chi riceve più posta scritta a mano? Io credo nessuno.

Di solito, quando apro la cassetta delle lettere, o la buca delle lettere (chissà, poi, perché si chiami così! Bho! “Buca”? piuttosto riduttivo, direi) ciò che mi aspetto di trovare sono, nell’ordine: bollette; bollettini del condominio; pubblicità delle pompe funebri.

Sì, credo che Torino, se non ricordo male, abbia avuto il primato per questo genere di pubblicità.

Si può immaginare con quanta trepidazione io possa avvicinarmi a questo antro che definirei dell’orrore!

Quando, poi, mi va bene e non trovo nulla da pagare, né nessuna pubblicità macabra, allora trovo avvisi di mancata consegna di qualche raccomandata. Il lieto fine, tuttavia, resta zoppo, perché in genere si tratta di multe.

Io ricordo che da bambina scrivevo lettere a mia nonna Antonietta.

Mia nonna viveva in meridione, più precisamente in Basilicata, ancora più precisamente in un paesino in provincia di Potenza, Montemilone.

Mia nonna profumava di paese. Mi voleva un gran bene e anche io gliene volevo.

Mia mamma, che da mia nonna ha preso la dolcezza, mi diceva di scriverle queste lettere in occasione del Natale. Io le facevo dei disegni e poi ricordo nitidamente che mi mettevo il rossetto e stampavo un gran bacio sopra di esse, al posto della firma.

Ero felice! Penso che lo fosse anche la mia nonna, ma non gliel’ho mai chiesto. O magari me lo ha detto, ma io non lo ricordo, ora.

Ecco, secondo me, scrivere una lettera non è soltanto mettere dell’inchiostro su un foglio.

Scrivere una lettera comincia proprio dal foglio.

Devi sceglierlo con cura, pensando al destinatario. Ricordo che, sempre da bambina, nella cartoleria dove andavo a rifornirmi di cancelleria per la scuola elementare, avevano un grande assortimento di carta da lettere: a fiori, a tinta unita, profumata, con o senza i margini, con le righe, con i quadretti… era arduo scegliere!

Una volta che hai scelto la carta, dovrai scegliere l’inchiostro.

Anche qui, puoi spaziare: nero o blu, per i messaggi formali: e questa è facile!

Colorato per gli amicali, ma anche nel colore dovrai scegliere oculatamente: rosa se vuoi essere delicato, verde se vuoi essere leggero, arancio se vuoi essere simpatico, e via così. A libera interpretazione.

Infine, c’è la grafia.

Sulla grafia si potrebbe scrivere un tema, poiché ognuno ha la propria, ed essa cela mille aspetti della psicologia di ognuno di noi. Io non sono preparata, quindi finirei per scrivere ovvietà e banalità.

Certo è che, nell’atto di scrivere un messaggio a mano, mi concentro di più, al fine di rendere il tratto più gradevole alla vista e fare in modo che anche la grafia diventi parte della sceno-grafia e colpisca in maniera favorevole l’occhio del destinatario, affascinandolo e attraendolo.

Ecco, dunque, che il fatto di trovarmi nella cassetta delle lettere un reperto storico come un esemplare di biglietto scritto a mano, mi ha catapultato indietro nel tempo.

Così è stato, in effetti, ma non nel modo che speravo.

La verità è che sapevo bene di cosa si trattasse, ma non volevo pensarci.

Era già stato abbastanza doloroso e sapevo che anche quel biglietto avrebbe risvegliato quel dolore.

Il dolore di una parte di vita che non c’è più. Tuttavia, pur sapendolo, è stato comunque uno schiaffo.

Ho ritrovato la scrittura di una carissima Amica; una scrittura che campeggiava tutti i giorni sul mio diario di ragazza; una scrittura che conosco e alla quale voglio bene.

Questa volta, non scriveva di concerti o di gruppi musicali; non scriveva di professori o di compagne.

Mi ringraziava per essere stata partecipe al suo grande dolore.

Mi chiedo: perché?

Perché abbiamo sdoganato i messaggi virtuali per qualunque tipologia di comunicazione, ma manteniamo quelli scritti per comunicare il dolore?

Perché lasciamo solo ad esso il privilegio di restare nella scrittura a mano?

Perché non riusciamo a mantenere questa buona abitudine di trasferire il nostro affetto con una penna in mano, invece che affidarlo all’etere?

Riflettiamo: quanto ci resterebbe incollato di più addosso il buon umore, se esso fosse scritto a penna?

Quanto, invece, viene amplificato il dolore?

Ma la risposta è una, chiara, precisa, sicura: il motivo è il Rispetto.

Il rispetto della forma, che ancora esiste per poche e selezionate occasioni.

E allora mi dico: per fortuna!

Per fortuna ancora si scrive a mano il dolore: almeno non resta inutile, sprecato.

E, finisco, domandandomi: se con questo biglietto io ho potuto sentire quasi sulla mia pelle il dolore della mia cara Amica; se la scrittura ha, dunque, questo potere con il dolore, quanto ne avrebbe con la felicità o l’amore?




mercoledì 9 novembre 2022

TRAPPOLE DI ORGOGLIO

Il giudizio è una trappola.

Infatti, proprio come una trappola si nasconde in mezzo ai “Secondo me”, si mimetizza tra i “Personalmente, io penso che…”.

Come un animale predatore che si camuffa da preda, il giudizio è rivestito di buone intenzioni: ne ha almeno tre strati, che lo rendono praticamente irriconoscibile ad occhio nudo.

Uno per nascondersi alla vista, uno per non farsi riconoscere a pelle, e, infine, uno per non farsi scoprire dai sentimenti.

Fermo restando che siamo tutti pronti a condannarlo, poi mi chiedo: quante volte ci siamo resi conto di averne emesso uno o di esser stati sul punto di farlo?

A me è capitato. Diverse volte. E sapete come ci si sente, mentre lo fai?

Ti senti superiore. Ti senti un grande. Ti senti migliore, anzi IL migliore.

È una sensazione che ti gasa.

Poi però il gas passa, evapora e, come una bibita che viene lasciata aperta fuori frigo, la sensazione che rimane è quella di mancanza di sapore, di gusto, di tonicità.

Anzi, potrei anche dire che dopo, quasi subito dopo, ci si sente vuoti, sgonfi, piatti: come un pallone sgonfio, come se quello che hai appena detto fosse sporco.

Ma tu devi reggere quell’odioso Gioco delle Parti e fai finta di nulla, anzi ti racconti che tu sei nel giusto, il giusto assoluto con la G maiuscola.

E poi, ti dimentichi.

Parallelamente, la sensazione di chi riceve il giudizio, di chi viene in qualche modo marchiato da esso, si manifesta in maniera diametralmente opposta: le parole arrivano, feriscono la pelle, penetrano la carne, fanno sanguinare l’anima.

Il problema che è che il diametralmente valido sulla parte iniziale del processo, non vale anche sulla seconda parte, ossia il dopo: quel marchio arriva per restare, nel cuore di chi lo riceve, e non può essere lavato via.

Bene o male, tutti abbiamo vissuto sia una che l’altra condizione, e allora mi dico che la propensione al giudizio molto probabilmente è generata dall’avvilimento che il giudizio stesso provoca: nel disperato tentativo di trovare consolazione alla propria mortificazione, reiteriamo sull’altro la stessa mortificazione e ne amplifichiamo il raggio d’azione, in una spirale infinta.

Ma, allora, la soluzione quale è? Il sacrificio del disinnescare, forse.

Sacrificio dell’amor proprio, dell’orgoglio.

È un vero sacrificio, questo?





mercoledì 21 settembre 2022

Riflettevo

Riflettevo su come fosse assurdo ed ingiusto che siano i drammi a farci ricordare delle numerose note positive di cui si compone la sinfonia delle nostre vite.

Perché dovrebbe essere una cicatrice a farci ricordare dell’immensa ricchezza di amore di cui già eravamo circondati?

Perché, spesso, non riusciamo a riconoscerlo ogni giorno nei gesti semplici: la mano tesa di nostro figlio; un tramonto; la pioggia leggera; una telefonata; un piatto ben cucinato; una corsa al mattino presto; un lavoro che ci viene affidato.

Ogni azione che compiamo o che ci viene richiesta è, prima di tutto, fatta di molteplici altre azioni e considerazioni: come le miriadi di paillettes che compongono il costume di una ballerina.

Sta a noi far muovere quel costume e far brillare le paillettes.

Sta a noi riconoscere, in ogni azione che compiamo o che ci viene richiesto di compiere, il suo apporto positivo alla nostra giornata e alla nostra vita



sabato 20 agosto 2022

il Mio-Tempo e l'Urgenza

 

Riflettevo sull’utilizzo del tempo.

Pensavo a come lo impiego.

Ho realizzato che, nel mio vivere e impiegare il Mio-Tempo, c’è sempre un senso di Urgenza.

Si tratta di una Urgenza che si diffonde dal petto e mi invade ogni tessuto, ogni respiro.

Si tratta di una condizione che mi obbliga, quasi, a riempire ogni attimo di emozioni, visive e sensoriali.

E così, capita che, dietro al vessillo di questa entità che si impossessa di me, io faccia cose e prenda decisioni. Così, vivo esperienze che risultano amplificate dalla velocità con cui, spesso, vengono vissute.

E poi, però…

E poi però mi chiedo: ho vissuto “bene” quel Mio-Tempo?

Ho vissuto “abbastanza” quel Mio-Tempo?

Ho impiegato “costruttivamente” quel Mio-Tempo?

Potevo “fare di più o meglio” in quel Mio-Tempo?

Mi chiedo se l’urgenza mi permetta, anche, di interiorizzare, e mentre me lo chiedo realizzo che, in effetti, non sarei capace di fare altrimenti: non è una costrizione, la mia, è una naturale propensione.

La mia testa non potrebbe concepire nemmeno un minuto senza un impiego.

Sarebbe un “minuto sprecato”.

Ma allora, dove si trova lo spazio temporale per la contemplazione?

Dove trova posto la noia?

Dove si colloca l’ispirazione che nasce dal fermarsi?




giovedì 14 luglio 2022

Un Nuovo MOOD sta arrivando!

Cuoricini cari, un nuovo mood, un nuovo vivere, soprattutto un nuovo sentire, sta arrivando presto! Tenetevi sempre aggiornati sul mio sito

WWW.DANIELASPAGNOLO.COM

dove vi informerò dei nuovi passettini che faremo insieme da Settembre in avanti. 

Sarà un nuovo approccio al quotidiano!




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