“Se non mi ascolti, vuol dire che non vuoi bene a mamma tua!”
“Sei un monello, fai piangere la tua mamma!”
“Dopo tutto quello che ho fatto per te, ti comporti così?”
E di frasi di questo genere ne potremmo elencare tutta una
lunga serie che ci siamo sentiti dire sin da bambini e che quelli di noi che
sono diventati genitori avranno certamente ripetuto, inconsciamente magari, ai
loro figli.
Sì sì, anche voi che siete perfetti e che seguite tutti i
corsi dei “migliori-genitori-del-mondo-che-non-sbagliano-mai-tattica-con-i-figli”.
Io dico le parolacce davanti ai miei figli e ci litigo pure,
e ovviamente gli ho anche detto una o due di quelle frasi che ho elencato sopra.
Sinceramente penso che la cosa peggiore delle tre sia l’ultima.
Quelle frasi, e altre simili, nascondono un’arma letale che
esiste da quando esiste il rapporto madre-figlio: il senso di colpa.
Noi nasciamo e siamo i benvenuti. Ci preparano camerette
profumate e colorate, ci comprano vestitini orripilanti che però sono anche
molto carini e poi ci pacioccano dal mattino alla sera, chiamandoci con ogni
genere di nomignolo sdolcinato: Patatino (solo se è maschio, perché per
le femminucce non suona bene), Cucciolotto, Chicco, Gioia, Cuore, Nini.
I francesi usano dire Cavolino.
Ci dicono bravo per ogni cosa che facciamo, anche solo se facciamo la cacca. A scuola siamo i migliori, persino se siamo delle capre. Siamo i più belli del mondo e chissene delle orecchie un po' grandine o del naso un po' schiacciato.
Ci dicono bravo per ogni cosa che facciamo, anche solo se facciamo la cacca. A scuola siamo i migliori, persino se siamo delle capre. Siamo i più belli del mondo e chissene delle orecchie un po' grandine o del naso un po' schiacciato.
Fin qui tutto bene, tutti felici.
Ma non appena ti azzardi a contraddire chi ti sostenta, che
tra l’altro lo dovrebbe fare con amore e non come se fosse una cambiale, si
intende, ti piovono addosso rimostranze gravide di senso di colpa in piccoli semi,
che ti si insinuano dentro e si depositano nel profondo del tuo essere, che
ancora è in via di formazione, di crescita interiore. Fosse tutto qui, sarebbe niente.
Invece no, perché il vero potere di questi semini diabolici
sta nel fatto che essi metteranno radici che si pianteranno con forza nell’intimo
e accompagneranno l’individuo in tutta la sua vita.
La religione cristiana è piena di sensi di colpa. Pensiamoci:
ogni ricorrenza del calendario liturgico è costellata del famigerato “esame di
coscienza”, che l’esame di maturità gli fa un baffo, altro che commissione esterna:
con quella traccia ti devi presentare al confessore e devi pure sperare che poi
non ti riconosca quando ti incontra per strada.
Il senso di colpa ormai fa parte della nostra miserabile
vita e ci accompagna scandendone le fasi.
Sei bambino e devi obbedire alla mamma, perché se no sei un
monello e lei piange perché sei un monello. Cresci e non devi divertirti troppo,
perché se non poi che penserà la gente dei tuoi genitori che ti lasciano
divertire troppo.
Cresci ancora e te ne vuoi andare di casa e però ti senti in
colpa perché poi pensi che i tuoi ci restino male che tu te ne vai, e invece
loro non aspettano altro per stappare quella bottiglia del 1920 e riprendersi lo spazio in casa loro, ma tu
non lo sai perciò ti fai assalire dai sensi di colpa.
Poi vai a lavorare e vuoi lavorare ma anche vivere, ma il
tuo capo disprezza chi esce dall’ufficio prima delle 21 e allora tu resti
inchiodato alla scrivania fino alle dieci.
Poi arriva una bronchite anomala. Ma tu non ci badi troppo, perché
sei leggermente preso nel frullatore che è la tua vita.
Poi la bronchite si diffonde, diventa epidemia. Ma tu
onestamente senti le notizie, ma continui con quella vita che magari era anche
una vitaccia, ma era pur sempre la tua.
Poi arriva la pandemia. E lì non si scherza, ci siamo dentro
tutti, anche tu e la tua vita di merda.
La realtà ti arriva in faccia come una sberla. Tutto cambia,
non per modo di dire, ma questa volta sul serio. E tu ti affanni a cercare un
briciolo di quella vita di merda che avevi prima e che ti dà un po’ di
sicurezza proprio con quella sua insulsa durezza.
Ma fuori dalla tua vita, fuori dalla tua bolla ci sono
migliaia di morti. Tu non li conosci tutti, ma loro ci sono. E certamente tu
provi dolore per loro, ma magari non piangi veramente, perché non tutto il dolore
si può dimostrare con le lacrime o con le parole. Ci sono persone che il dolore
se lo tengono dentro, e quello, bastardo, si va a mettere, indovinate un po’,
vicino al semino del senso di colpa, che nel frattempo è diventato con gli anni
grosso come un’anguria.
Ma se tu non comunichi al mondo il fatto che sei allineato con
la manifestazione del dolore, allora sei un insensibile, un incosciente, un
depravato, uno sciocco, quasi quasi sei un assassino.
Questi sono i giorni del senso di colpa.
Tutti ne siamo pervasi ma non ne siamo coscienti. Tuttavia,
continuiamo a rimproverare ogni nostro prossimo che si “permette” di mancare di
rispetto alle migliaia di morti perché chiede di poter prendere un boccata d’aria,
oppure perché chiede un po’ di sollievo per i suoi bambini.
Diventi colpevole di un atto indicibile per il semplice
fatto di cercare un po’ di sollievo in un’atmosfera densa di dolore e angoscia.
Ma mi chiedo: qual è la colpa, in questi casi. Chi chiede questo briciolo di
serenità è responsabile, forse, delle migliaia di morti che sono state e che
stanno avvenendo? Questa è la più grande campagna in nome del senso di colpa,
un grossa bugia.
Il senso di colpa insito in rimproveri che si leggono sui
social a chi ingenuamente fa domande che riguardano la vita quotidiana dimostra
che siamo schierati in due fazioni, una delle quali purtroppo molto più
numerosa.
Allora mi chiedo: è davvero giusto giudicare sempre e
comunque? È davvero giusto dare per scontato che l’altro sia un insensibile, un
incosciente, un depravato, uno sciocco, quasi quasi un assassino?