40 giorni. La quarantena ha un senso allora.
Ci ho messo 40 giorni, anzi Quaranta (se lo scrivo in lettere fa più effetto) a comprendere ciò che mi stava succedendo.
La diagnosi iniziale, la conferma; le comunicazioni di carattere burocratico e quelle di carattere organizzativo.
Tutto sparato addosso, a me; solo a me; proprio a me.
“No no, non ci siamo sbagliati: stiamo parlando proprio a lei, Signora”
“No, guardi, non ci siamo sbagliati, è proprio così, è tutto vero”
Il buio è calato. Come con due tendoni pesanti che celano la tua fonte di luce naturale, sana, vitale.
Ingenuamente, la prima soluzione cui ho pensato è stata: prendo il primo treno e scappo via da qui. Lontano. Così mi lascio tutto alle spalle e non mi accadrà nulla.
Ho anche pensato che se fossi stata sola al mondo, sarebbe stato più facile: nessuna comunicazione da dare, nessuna spiegazione, nessuno sguardo di pietà da sopportare.
Invece no. Devo comunque proseguire, come se nulla fosse. Come se non mi avessero comunicato che …
Quindi: cerca di aprire quelle tende pesanti. Cerca di far entrare la luce di cui prima godevo senza nemmeno rendermene conto.
La mia vita era perfetta, e non lo sapevo. Anzi, spesso me ne lamentavo: ingrata!
Eppure, anche se a volte la luce entra, ora sembra sbiadita e non scalda davvero il cuore.
Ho sulla mia strada persone fantastiche, che prima non conoscevo. Eppure queste stesse persone mi fanno paura e, sinceramente, avrei avuto anche piacere di conoscerle, ma non per la loro professione.
Sì, mi ci sono voluti quaranta giorni (e quaranta notti, come per il diluvio universale) per metabolizzare la mia nuova condizione. Ma questo non significa che io l’abbia accettata.
Sino al 12 aprile, la mia vita era normale, anche se non sapevo di avere, letteralmente, una serpe in seno.
Dal 13 di aprile sono stata catapultata in una realtà parallela dove mi muovo come in una bolla.
Non so ancora cosa mi aspetta. Per il momento, ho raccolto i miei pezzi e ho provato a rimontarli così come mi sembra che stiano meglio. Per provare a reggere gli ulteriori urti. Per provare a continuare.
Lo faccio per Voi, Edoardo, Giulio, Umberto. Lo faccio per Voi, mamma e papà.
Sono certa che se non ci foste stati, le mie scelte sarebbero state altre, certamente più semplici all’apparenza.
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