Il giudizio è una trappola.
Infatti, proprio come una trappola si nasconde in mezzo ai “Secondo me”, si mimetizza tra i “Personalmente, io penso che…”.
Come un animale predatore che si camuffa da preda, il
giudizio è rivestito di buone intenzioni: ne ha almeno tre strati, che lo rendono
praticamente irriconoscibile ad occhio nudo.
Uno per nascondersi alla vista, uno per non farsi
riconoscere a pelle, e, infine, uno per non farsi scoprire dai sentimenti.
Fermo restando che siamo tutti pronti a condannarlo, poi mi
chiedo: quante volte ci siamo resi conto di averne emesso uno o di esser stati
sul punto di farlo?
A me è capitato. Diverse volte. E sapete come ci si sente,
mentre lo fai?
Ti senti superiore. Ti senti un grande. Ti senti migliore,
anzi IL migliore.
È una sensazione che ti gasa.
Poi però il gas passa, evapora e, come una bibita che viene
lasciata aperta fuori frigo, la sensazione che rimane è quella di mancanza di
sapore, di gusto, di tonicità.
Anzi, potrei anche dire che dopo, quasi subito dopo, ci si
sente vuoti, sgonfi, piatti: come un pallone sgonfio, come se quello che hai
appena detto fosse sporco.
Ma tu devi reggere quell’odioso Gioco delle Parti e fai
finta di nulla, anzi ti racconti che tu sei nel giusto, il giusto assoluto con
la G maiuscola.
E poi, ti dimentichi.
Parallelamente, la sensazione di chi riceve il giudizio, di
chi viene in qualche modo marchiato da esso, si manifesta in maniera diametralmente
opposta: le parole arrivano, feriscono la pelle, penetrano la carne, fanno
sanguinare l’anima.
Il problema che è che il diametralmente valido sulla parte
iniziale del processo, non vale anche sulla seconda parte, ossia il dopo: quel
marchio arriva per restare, nel cuore di chi lo riceve, e non può essere lavato
via.
Bene o male, tutti abbiamo vissuto sia una che l’altra
condizione, e allora mi dico che la propensione al giudizio molto probabilmente
è generata dall’avvilimento che il giudizio stesso provoca: nel disperato
tentativo di trovare consolazione alla propria mortificazione, reiteriamo sull’altro
la stessa mortificazione e ne amplifichiamo il raggio d’azione, in una spirale
infinta.
Ma, allora, la soluzione quale è? Il sacrificio del
disinnescare, forse.
Sacrificio dell’amor proprio, dell’orgoglio.
È un vero sacrificio, questo?
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